Corte di Cassazione – 15 maggio 2017, sent. n. 24084

Riportiamo un estratto del contributo di Alessandro Negri su Diritto penale contemporaneo.

Con la sentenza qui allegata, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di porto d’armi ex art. 4, comma 2, della legge n. 110/1975 inflitta dal Tribunale di Mantova a un indiano di religione Sikh che portava con sé il kirpan, il pugnale rituale costituente uno dei simboli [1] di quel culto.

La pronuncia ha suscitato una grande eco mediatica, in particolare per il richiamo della Corte all’obbligo, per l’immigrato, “di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”. Secondo la Corte, infatti, non sarebbe tollerabile che la società multietnica, pur costituendo una necessità, portasse alla formazione di “arcipelaghi culturali confliggenti”, ostandovi l’unicità del tessuto
culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare.

I fatti

L’imputato era stato fermato per strada dalla polizia locale, che lo aveva trovato in possesso di un coltello, portato alla cintura, dalla lunghezza complessiva di 18,5 cm e ritenuto, di conseguenza, idoneo all’offesa. Alla richiesta delle forze dell’ordine di consegnarlo, questi si era rifiutato, sostenendo che il porto del coltello gli fosse imposto dai precetti della sua religione, essendo egli un Sikh praticante.

Il giudice di primo grado aveva condannato l’imputato: in particolare, il Tribunale aveva ritenuto che le usanze religiose di ciascuno non integrassero che mere consuetudini, e dunque fossero incapaci di produrre alcun effetto abrogativo di norme penali. L’imputato aveva quindi adito la Suprema Corte e chiesto l’annullamento della sentenza, invocando l’art. 19 della Costituzione. Il coltello che stava portando, infatti, era il kirpan, un simbolo del suo culto, il cui porto sarebbe stato giustificato, appunto, dalla sua religione.

La decisione della Corte di Cassazione

La pronuncia della Corte di Cassazione, che ha confermato la sentenza di condanna, si rifà ad un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto. Nel 2016, infatti, la Suprema Corte è intervenuta in due distinte occasioni sul tema del porto in pubblico del kirpan da parte dei fedeli Sikh. In quelle occasioni affermò in entrambi i casi che il motivo religioso non potesse giustificare la condotta. L’indirizzo sostenuto da alcuni giudici di merito, che avevano proceduto ad un bilanciamento tra diritto di conformarsi alla propria religione e bene tutelato dalla norma incriminatrice, riconoscendo, anche in considerazione della scarsa offensività del fatto contestato, prevalenza al primo, era quindi stato censurato dalla Corte di Cassazione, sia pur con motivazioni alquanto stringate.

Se le pronunce del 2016 della Suprema Corte, però, non avevano attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, rimanendo confinate alle analisi degli operatori del diritto, la sentenza qui annotata, come già accennato, ha suscitato grande clamore. Ciò si spiega indubbiamente con il riferimento del giudice di legittimità ad un presunto obbligo, per l’immigrato, di conformarsi ai “valori del mondo occidentale”, formula fortemente evocativa ma invero assai vaga e indefinita.

La Cassazione, in effetti, sembra aver basato la propria decisione su una motivazione di mero carattere valoriale, più ascrivibile a valutazioni etiche che giuridiche: e ciò non può che suscitare perplessità. Infatti, se, in linea generale, il giudicare “per valori”, per loro natura mutabili nel tempo e nello spazio, è un modo di procedere refrattario a oggettivi criteri regolativi e delimitativi, a maggior ragione lo è
nel caso di specie, attesa la assoluta vaghezza di quei “valori occidentali” cui l’immigrato sarebbe tenuto a conformarsi.

[…] In relazione al caso di specie la Cassazione ha operato una scelta in qualche senso “politica” privilegiando, tra i “valori occidentali”
genericamente richiamati (ma non nominativamente indicati), la sicurezza e l’ordine pubblico a discapito del pluralismo, citato solo en passant, al paragrafo 2.3 della sentenza, nella sua declinazione di “pluralismo sociale”.

Tale scelta, tuttavia, finisce per contrastare con la pluriennale opera di bilanciamento tra diversi valori costituzionali in conflitto tra loro, intrapresa dalla Consulta, all’esito della quale la Corte Costituzionale ha individuato una sorta di gerarchia di valori: ad alcuni di essi è stato riconosciuto il rango di principi supremi dell’ordinamento, in quanto tali destinati a prevalere su altri che, invece, sono stati configurati esclusivamente come primari. Ebbene, tra i primi figurano proprio il pluralismo e la laicità, mentre, tra i secondi, la sicurezza dello Stato.

Nel necessario bilanciamento tra valori che anche la Cassazione avrebbe dovuto effettuare, le indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale non avrebbero dovuto essere così grossolanamente trascurate.

Note:

[1] Questi simboli sono rappresentati dalle cosiddette cinque “K”, ovvero: kesh (capelli lunghi raccolti in un turbante, obbligatorio per gli uomini e talora usato anche dalle donne); kangha (pettine, segno di capelli raccolti in modo ordinato, a differenza della crescita “libera” e disordinata degli asceti induisti); kara (un braccialetto di ferro, che rappresenta il controllo morale nelle azioni e il ricordo costante di Dio); kacha (indumenti intimi o sottovesti di tipo allungato, simbolo dell’autocontrollo e della castità); kirpan (spada cerimoniale,  simbolo religioso di fortezza e lotta contro l’ingiustizia, non arma).

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